La profondità di campo è uno dei principali fattori di successo in fotografia odontoiatrica. La fotocamera ci offre alcuni strumenti che si possono rivelare preziosi per ottenere i migliori risultati. Uno di questi è il mirino ottico della fotocamera, dove noi possiamo vedere ciò che vedrà il sensore e quindi la nostra immagine finale.
Ma è importante sapere che ciò che andremo a visualizzare nel mirino corrisponde solo in parte a quello che sarà il risultato finale. Insomma il mirino della fotocamera non dice mai tutta la verità, ma lo fa per aiutarci: il suo è un inganno a fin di bene! Dobbiamo conoscere questo aspetto della funzionalità della fotocamera per sfruttare a nostro favore quello che sembrerebbe un inganno, ma che in realtà è un prezioso alleato per fotografare.
Infatti grazie al mirino possiamo posizionare nel modo migliore la nostra profondità di campo e ottenere così la massima nitidezza dell’immagine. La profondità di campo è un parametro fondamentale che richiede attenzione e perizia, per non rischiare di ottenere foto non nitide e quindi inutilizzabili o brutte. Riuscire a ottenere una bella documentazione fotografica in odontoiatria non è mai un caso, ma sempre il risultato di uno sforzo costante di comprensione del “perché” fare le cose e, in questo caso, del “come” fare le cose.
Il mirino ci consente di posizionare correttamente la profondità di campo.
Andiamo quindi ad approfondire questo aspetto addentrandoci nella problematica della profondità di campo. In generale in fotografia è cosa nota che l’ingrandimento del soggetto riduce in modo inevitabile l’ampiezza della area dell’immagine visibile con nitidezza, cioè quella parte dell’immagine non sfocata, area espressa appunto come “profondità di campo dell’immagine”.
Come si può notare nell’immagine sopra, solamente l’area corrispondente ai canini risulta visibile nitidamente. In questo caso l’ensensione dell profondità di campo è minima.
La necessità d’ingrandire il soggetto fotografato, nel nostro caso i denti, introduce così un grande problema: quello della gestione dell’area nitida e della profondità di campo.
Quando si mette a fuoco il particolare di un soggetto, dobbiamo ricordare che la zona nitida che apparirà nell’immagine non corrisponde a quanto vediamo nel mirino. La luce che passa attraverso l’obiettivo è sottoposta alle leggi dell’ottica fisica e alle caratteristiche delle lenti, cui non può inevitabilmente sfuggire, e il risultato è che l’immagine fotografica è radicalmente diversa dalla visione naturale della stessa scena, essendo bidimensionale e schiacciata nel senso della profondità spaziale.
In particolare l’immagine fotografica mostrerà nitidamente solo una parte dello spazio, posta anteriormente e posteriormente al punto di messa a fuoco; quest’area ha una sua precisa estensione, che corrisponde appunto alla cosiddetta profondità di campo. Il punto di messa a fuoco è così il cardine su cui si declina l’area nitida dell’immagine. È evidente quindi come diventi cruciale la scelta corretta del punto di messa a fuoco, cioè “dove” fisicamente si nota il punto di maggiore nitidezza mentre s’inquadra il soggetto nel mirino della fotocamera.
Occorre specificare ulteriormente che l’area nitida, cioè la profondità di campo, si estende più posteriormente che anteriormente rispetto al punto di messa a fuoco, e di ciò occorre tener conto durante l’esecuzione delle fotografie cliniche.
Il concetto di profondità di campo è assolutamente importante per la fotografia odontoiatrica perché è necessario che le immagini scientifiche non presentino alcuna zona di sfocatura, zone cioè non leggibili e non perfettamente corrispondenti al reale. La funzione della fotografia scientifica odontoiatrica è di documentare, cioè rappresentare fedelmente, la realtà delle cose e una zona sfocata dell’immagine è un difetto grave.
Siamo così giunti a definire la seconda regola basilare dell’ortografia delle immagini: la fotografia odontoiatrica è una tecnica a priorità di profondità di campo.
Un’immagine con la corretta estensione della profondità di campo.
L’odontoiatra per ottenere immagini scientifiche ineccepibili deve essere insomma in grado di gestire correttamente la profondità di campo. La domanda è quindi: esiste la possibilità di aumentare quest’area nitida nell’immagine? La risposta è ovviamente positiva: utilizzando razionalmente il diaframma dell’obiettivo, che è un dispositivo meccanico che allarga o restringe il canale attraverso cui passa la luce, regolando quindi la quantità totale di luce che arriva al sensore.
Da quanto ho appena scritto si deduce che il diaframma ha due funzioni sostanziali: 1) regolare la quantità di luce che arriva al sensore; 2) regolare l’estensione della profondità di campo.
Poiché è sempre necessario semplificare la nostra routine, consiglio vivamente di pensare e utilizzare il diaframma prevalentemente per la seconda funzione, e quindi per l’odontoiatra la principale utilità del diaframma è quella di regolare finemente la profondità di campo della scena inquadrata.
La nozione fondamentale che occorre ricordare è che a maggiore chiusura del diaframma corrisponde una maggiore profondità di campo, e viceversa: a maggiore apertura si ottiene una minore estensione dell’area nitida.
(PIU’ CHIUSO = PIU’P.D.C / PIU’ APERTO = MENO P.D.C)
Diventa quindi fondamentale conoscere con esattezza e monitorare costantemente il grado di apertura del diaframma, che è espresso tramite un numero, detto “numero f”, che si può leggere nel display dei comandi di ogni fotocamera, dopo il valore indicante il tempo di che a importante: il numero di diaframma funziona apparentemente al contrario, cioè a valori più alti corrisponde un diaframma più chiuso e viceversa.
Per i più tecnici/matematici dirò il numero f rappresenta il denominatore della frazione che esprime quante volte il valore di apertura è contenuto nella lunghezza focale dell’obiettivo. Non mi interessano le definizioni, quanto piuttosto spiegare che con un valore di f32 il diaframma è molto chiuso, mentre con un valore di f2 è molto aperto, e quindi volendo chiudere il diaframma devo andare su numeri alti e viceversa.
Quali sono i diaframmi più utilizzati e utilizzabili in odontoiatria? Sicuramente il diaframma 32 per le inquadrature intraporli fino a circa 11 per quelle extraorari, e ovviamente tutti quelli compresi tra questi due intervalli.
Le fotocamere Nikon, alla massima chiusura, indicano valori del numero f fino a 54, per un fatto molto tecnico che è superfluo spiegare qui, ma che non cambia la sostanza delle cose. Introduco ora un argomento molto importante: la correlazione tra ingrandimento e profondità di campo. Occorre sapere che la p.c.c. è inversamente proporzionale all’ingrandimento; ciò vuol dire semplicemente che più ingrandisco il mio soggetto e di minore p.c.c. dispongo, per cui più mi avvicino al soggetto per ingrandire e più devo porre attenzione all’uso del diaframma:
PIU’ INGRANDIMENTO= MENO P.D.C. – / MENO INGRANDIMENTO = PIU’ P.D.C.
Sintetizzando i concetti sin qui espressi, bisogna familiarizzare e abituarsi all’idea che a maggiore ingrandimento occorre selezionare un maggiore grado di chiusura del diaframma per estendere il più possibile la zona nitida dell’immagine. Detto in altri termini, in base all’ingrandimento che si desidera ottenere occorre regolarsi così con il diaframma:
PIU’ INGRANDIMENTO = PIU’ CHIUSO / MENO INGRANDIMENTO MENO CHIUSO.
Dobbiamo poi considerare due fatti importanti e correlati: il primo è che allontanandosi dal soggetto la luce dei flash farà più fatica ad arrivare al soggetto, il secondo è che, come già illustrato, allontanandosi (diminuendo così l’ingrandimento), la p.c.c. aumenta spontaneamente.
Per i più tecnici ricordo che l’intensità luminosa decresce con il quadrato della distanza, che cioè raddoppiando la distanza dal soggetto, l’intensità luminosa sarà quattro volte inferiore. Per sfruttare la correlazione tra questi due fenomeni, è utile utilizzare la funzione principale del diaframma, la regolazione della quantità di luce da far giungere al sensore; è ragionevole così, a minore ingrandimento e allontanandosi dal soggetto, aprire relativamente il diaframma, infatti l’aumento spontaneo della p.c.c. ci permette di aprire il diaframma per far entrare più luce e agevolare così l’esposizione.
Non amo dare i numeri, nel senso che trovo troppo rigido e scolastico abbinare un preciso numero di diaframma a un’inquadratura, preferisco quindi introdurre il concetto di “massima chiusura utile”, poiché la variabilità delle dimensioni del soggetto inquadrato comporta un’estrema variabilità del rapporto d’ingrandimento e quindi della p.c.c. richiesta.
Con questo concetto intendo dire che si deve tenere il diaframma sempre il più chiuso possibile ma in relazione alle effettive necessità: è inutile, per esempio, utilizzare un diaframma f32 per le foto del volto, che necessitando di un minore ingrandimento rispetto alle foto intraporli, consentono l’uso di un diaframma f11. Ma nel caso del volto di un bambino molto piccolo, che richiede quindi maggiore ingrandimento, sarebbe possibile utilizzare un f16 per estendere la p.c.c.
Ecco quindi il concetto di massima chiusura utile: una scelta dinamica e non rigidamente protocollata del grado di chiusura del diaframma, guidata sempre dalla competenza e consapevolezza dell’odontoiatra che fotografa.
La necessità di ricercare sempre la massima chiusura utile, è alla base della necessità assoluta di utilizzare i flash in fotografia odontoiatrica: qualsiasi altra fonte luminosa presente nello studio risulterebbe insufficiente a ottenere una esposizione ottimale, ed è esattamente questo uno dei motivi per i quali non si può utilizzare la luce del riunito per le fotografie.
Concludendo e sintetizzando: è sempre necessario ottenere immagini scientifiche che non abbiano zone poco nitide o sfocate; per ottenere questa condizione è necessario utilizzare in modo razionale il diaframma dell’obiettivo, che è il principale fattore di regolazione della profondità di campo. Ricordate quindi: più l’ingrandimento è spinto, maggiore è la necessità di chiudere il diaframma e viceversa.
Guarda il video: https://youtu.be/zFVuNPLEGSc
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